Giornalino d'istituto Euridice

NOSTALGIA

Li aveva estratti uno a uno dal sacchetto, lentamente, come fossero bambini di cui prendersi cura. Erano i suoi ricordi migliori, di un tempo ormai lontano. E non sono forse i ricordi la parte più preziosa e migliore di noi?

Il primo oggetto che aveva preso era una scatolina. Una scatolina semplice, di cartone, senza disegni, decorazioni o altro. Uno spago, sottile come la sua vita, che -lo sentiva- stava volgendo al termine, chiudeva la scatola. Con una delicatezza quasi inusuale, lo sciolse e aprì il lucchetto. Dentro erano conservati solo pochi oggetti: una boccetta di inchiostro nero, un pennino di legno chiaro e liscio, legato da un nastrino di raso color porpora, e alcune punte di ricambio. Immediatamente un’onda di ricordi la invase. Le sembrava di essere tornata indietro nel tempo: aveva vent’anni, impugnava il pennino e scriveva una lettera a suo marito, militare. Ora aveva quindici. Sua madre era sdraiata sul letto della loro vecchia casa, morente. Le consegnò la scatolina. Ora ne aveva dieci. Suo fratello rovesciava la boccetta e inchiostro nero si spargeva ovunque… Una lacrima le rigò la guancia.

Richiuse la scatolina e tirò fuori il secondo oggetto. Era un carillon, di quelli a carica manuale. Lo osservò attentamente. Sopra di esso erano disegnati dei gatti. Girò la manovella e una dolce musica riempì a stanza. Cominciò a ballare, con giravolte e piroette, e improvvisamente suo marito, morto quando lei aveva solo venticinque anni, fu lì con lei. Ballavano insieme. «Maria… ti ricordi?» le diceva. Altre lacrime le scesero.

Infine tirò fuori un orologio, dorato, con il cinturino nero di cuoio. Le lancette non si muovevano ormai più. La data era ferma al 18 giugno. L’aveva fermato lei, se lo ricordava bene. Si ricordava anche in quali circostanze lo aveva ricevuto. Prima di partire per la guerra suo marito glielo aveva consegnato, con poche parole, che però le avevano dato speranza. «Maria, conservalo bene fino al mio ritorno». Non era mai tornato. Al suo posto il 18 giugno erano arrivati due soldati. Le avevano dato la triste notizia.

E così come l’altra sua metà aveva smesso di battere, quel giorno anche l’orologio si era fermato.

Ormai piangeva a dirotto. Toccò ancora una volta tutti gli oggetti, ma la sua mano si soffermò sulla nera boccetta d’inchiostro. Sfiorò l’etichetta ormai ingiallita e il tappo. Con un piccolo sforzo la stappò e rimase a guardare quel liquido scuro e denso, esattamente come i suoi pensieri. Poi, con mano tremante afferrò anche il pennino, liscio, contro il suo palmo. Con un gesto delicato sciolse il nastro che lo legava alla scatola, poi la punta argentea si tuffò nell’inchiostro. E così cominciò a scrivere.  L’inchiostro si posava sulla pagina, quasi avesse volontà propria, e saliva e scendeva e disegnava mille ghirigori, lettere, parole, frasi. Stava scrivendo una lettera, una lunga lettera al marito. Lui che mancava ormai da troppo tempo. Ora sulla carta riviveva. Le sue azioni tornavano e il suo viso le sorrideva da quel foglio un po’sgualcito. Il carillon si azionò da solo. Evidentemente suo marito voleva risentire di nuovo quella musica che ascoltavano insieme. Anche l’orologio riprese a ticchettare. Nella stanza niente era più fermo, tutto era di nuovo vivo, sotto la spinta di quelle parole che facevano tornare ancora una volta suo marito. Lei non poteva vederlo, ma lui era lì, a girare la manovella del carillon, a ricaricare l’orologio e a leggere da sopra le sue spalle le parole d’amore che scriveva per lui. Peccato, davvero che lei non potesse vederlo. O forse sì?

«Giovanni… mi sei mancato» sussurrò girandosi piano.

Sara Venturelli, 2A LC