Giornalino d'istituto Euridice

Un moderno Robinson Crusoe alla deriva: se la caverà?

Urla, paura e confusione, le uniche cose che riesco a ricordare dopo che un’impetuosa tempesta ha travolto la mia nave e il mio equipaggio. Non so dove mi trovo e per giunta non riesco neppure a muovermi. La testa mi fa male e i pensieri pungono come sottili aghi nella mia mente: dove sono? Dove sono finiti i miei compagni? Alla fine, quella che doveva essere la più gloriosa delle mie avventure, si è trasformata in un terribile incubo.

Quest’estate avevo semplicemente programmato di godermi una serena vacanza nella mia piccola città. «Basta avventure!» mi ero detto, ma la mia grande curiosità e la mia indole frenetica mi avevano portato di nuovo a navigare su Internet alla ricerca di nuove imprese e nuovi tesori da scoprire. Insomma, la vita sedentaria non è adatta a me. In trent’anni ho girovagato per tutto il mondo per arricchire la mia preziosa collezione di cimeli e, grazie alla mia fidatissima compagna, chiamata tecnologia, ogni anno ne ho sempre trovati di più preziosi e interessanti. Amo l’avventura e ogni mia spedizione si è sempre conclusa gloriosamente. Ma non questa volta.

L’unica cosa che riesco a percepire sono i versi degli uccelli, un canto terrificante, sembrano estremamente irritati e questo mi porta a dedurre che in qualunque luogo mi trovi, nulla andrà per il verso giusto.

Dopo numerosi sforzi, mi alzo faticosamente da terra e, con la vista non ancora a fuoco, vengo colpito da una feroce e selvaggia bestia verde: mi accorgo con sollievo che si tratta solo di un albero. Numerosi alberi di un verde brillante decorano l’isola e, al contrario di quello che si potrebbe pensare, la spiaggia è alta e rocciosa, ricca di duri scogli, quegli stessi scogli che hanno distrutto la mia nave, ora ridotta a un mucchio di legno e metallo. 

Mi chiedo costantemente se qualcuno sia sopravvissuto, ma non vedo alcun segno di vita e, con tutti i mezzi tecnologici fuori uso, la probabilità di tornare a casa è pari a zero. Non ho un cellulare, un telefono fisso, un computer, una radio, nulla insomma! Inizio a pensare che il mio destino sia quello di morire qui, solo e abbandonato. Maledetto me! Sarei dovuto rimanere a casa mia e, invece, la mia cupidigia mi ha portato qui. 

Passata l’adrenalina del momento, mi accorgo che la mia gamba sanguina spaventosamente e il kit di emergenza giace da qualche parte i rottami. Sono spacciato! Senza cure, la ferita farà infezione e si estenderà poi in tutto il corpo, portandomi alla morte. Tuttavia, preferisco morire che rimanere schiavo in eterno di un’isola sperduta. Ma no! Cosa vado a pensare? A casa c’è la mia famiglia che mi attende e, sicuramente, non vedendomi tornare, manderanno i soccorsi, che in qualche modo mi troveranno… O almeno spero. Ora decido di preoccuparmi della gamba, ma non ho la più pallida idea di come sanarla: nel mio equipaggio c’era un esperto e fidato medico, come vorrei fosse qui con me in questo momento. Oh, se avessi il mio cellulare e una buona rete WI-FI … Sarei andato su Internet e avrei trovato un modo semplice e veloce. Mentre mi lamento, il sole continua a bruciare interrottamente e il sudore di certo non aiuta né la mia gamba né il mio stato d’animo. «Pensa!» Continuo a ripetermi, ma al giorno d’oggi le macchine sono abituate a pensare per noi. 

Innanzitutto, devo disinfettarla: la mia maglietta è completamente a brandelli, dunque ne prendo un pezzo e, dopo averla bagnato nell’acqua marina, asciugo delicatamente la ferita e, usando un altro pezzo di maglia a mo’ di fascia, la stringo con cura, sperando che l’emorragia si fermi. 

La gamba è a posto, ora mi tocca pensare all’acqua, al cibo e a un’abitazione: sono stanco, senza forze e senza speranze. Nonostante la paura aumenti e vorrei solo scappare da questo luogo, anche a nuoto se necessario, qualcosa mi spinge ad esplorare quest’immensa giungla. Addentrandomi, milioni e milioni di piante rare ed esotiche affascinano i miei occhi, uno spettacolo di forme e colori avviene davanti a me e non posso che sentirmi felice. Il dolore, la stanchezza, la paura svaniscono e al suo posto subentrano stupore, curiosità e meraviglia. Cavolo! Chi l’avrebbe mai detto che una tale disavventura avrebbe portato a qualcosa di magnifico. Un raggio di sole in quel grigio immenso che è la mia anima ora. 

Tuttavia, dopo qualche secondo, il brontolio insistente del mio stomaco mi riporta alla realtà e la mia attenzione si posa su un enorme e bizzarro albero da frutta, almeno credo… Dei frutti che non avevo mai visto. È sicuro mangiarli? Non lo so, non ho alcun mezzo per fare delle ricerche, ma il terrore viene sovrastato dalla fame e mi decido: se non fossi morto avvelenato, sarei morto sicuramente di fame! Armandomi di un lungo bastone, faccio cadere alcuni di quei succulenti frutti rossi, ne prendo uno e avidamente lo divoro, come se non mangiassi da mesi. Percepisco il suo sapore letteralmente esplodermi in bocca e la sua dolcezza riesce ad acquietarmi tutti i sensi, portandomi una sensazione quasi magica. Se mi avrebbe ucciso, almeno sarei morto in pace. 

Inizia a piacermi questo posto, questa sensazione convive però con una voglia di fuggire persistente. Mi sento come se il mondo andasse avanti e io me ne restassi qui, in un posto in cui tutto è bloccato, come Ulisse, prigioniero di un’isola in cui il tempo non esiste. Esco dalla giungla e mi avvicino al mare, ora apparentemente tranquillo, lo guardo e immagino di guardarmi da lontano: io, da solo, un naufrago, un sopravvissuto…

«Sono vivo! – urlo – Sono vivo!».  Continuo ad urlarlo ancora più forte, non perché spero che qualcuno mi senta, ma perché mi sento vivo. Stupido io che, dopo il naufragio, volevo solo morire, mentre i miei compagni sono morti davvero. Per quanto mi manchi il mondo da cui provengo, la mia vita, seppur fragile e disordinata, è l’unica cosa che mi resta e solo ora mi accorgo del suo grande valore. Ho quasi paura a ripensare a quanto prima il mio desiderio di morte fosse forte. Devo farmi forza e continuare a vivere per me, per la mia famiglia e per i miei amici defunti.

Acqua! Per quanta ne avessi ingoiata durante il naufragio, ne ho bisogno assolutamente. E deve essere necessariamente priva di sale!  Il mare, dunque, non è la scelta più indicata. “La necessità aguzza l’ingegno” e, nonostante sia privo di qualsiasi mezzo di ricerca, spremo le meningi e penso agli alberi e alle rocce. Circolo ancora un po’ nella foresta e decido di costruire un coltello con qualche sasso e pietra per intagliare degli alberi e trovarci dell’acqua, ma appena mi accingo a tagliare mi blocco, come ghiacciato, e penso: «Ma cosa sto facendo?» «Rovineresti mai una tale meraviglia?» «Ma devi bere, sciocco!» «Non rovinerò un albero!» «Vuoi vivere? Devi bere!». L’angoscia mi assale perché non c’è alcun modo per liberarsi dalla propria mente. 

Un brivido mi passa lungo la schiena, quando avverto un delicato scorrere di acqua e, facendo qualche passo più in là, scorgo un leggero ruscello e, come un matto, mi appresto a bere, rischiando di soffocare. Immediatamente la funesta sensazione di prima svanisce e quell’acqua mi fa rinascere come la pioggia primaverile fa rinascere i fiori. 

Ho del cibo, dell’acqua e la mia gamba sta decisamente meglio. Ora, ho addirittura imparato ad accendere il fuoco e per la notte, prendendo spunto da un film visto recentemente, ho costruito su un grosso e robusto albero una specie di amaca in cui accucciarmi tra le enormi fronde. Mi sdraio e guardo il cielo colmo di piccole e luminose stelle. Dove abito io, l’inquinamento e l’eccessiva luce artificiale non permettono la visione di tale splendore e l’uso della tecnologia e la vita frenetica che conduco non mi concedono mai di pensare. Sono felice, ora, qui in questa vasta e sperduta isola… Ho timore per il futuro certo, ma oggi, per la prima volta, mi sono sentito completo e orgoglioso di me. Durante tutta la mia vita la tecnologia ha preso il posto della mia mente, rendendomi incapace di pensare, ma oggi non sono solo sopravvissuto, ma, per la prima volta, ho vissuto.

Giorgia Savoia  2A classico